Mons. Riccardo Lamba, arcivescovo di Udine, ha pronunciato domenica nella solenne Santa Messa delle 10.30 in Cattedrale a Udine.
Cari fratelli e sorelle,
nella solenne veglia pasquale che abbiamo vissuto la scorsa notte, la Liturgia della Parola ci ha guidati lungo il percorso della storia della salvezza, a partire dal racconto della creazione, passando attraverso la vicenda di Abramo e Isacco, poi Mosè e il passaggio del popolo d’Israele attraverso il Mar Rosso, i profeti, fino ad arrivare a quello che è stato l’annunzio dato alle donne che di buon mattino si erano recate al sepolcro per ungere il corpo di Gesù. Un annunzio che esse hanno ricevuto da due personaggi misteriosi, uomini vestiti di splendide vesti: «Cosa cercate qui? Perché cercate qui colui che è risorto? Non è qui tra i morti. Piuttosto – dicono questi due personaggi – ricordatevi ciò che vi è stato detto da Gesù stesso nella sua vita terrena: “Bisognava che il Figlio dell’Uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno”». Questo è stato il percorso della veglia pasquale.
Se ritorniamo un attimo all’inizio della celebrazione di ieri sera, il primo brano si era aperto con il racconto della creazione, un testo culminante con la narrazione del sabato, il giorno in cui Dio portò a termine il suo lavoro e si riposò. Per la tradizione ebraica, sulla quale siamo innestati, il sabato è il culmine: si arriva alla conclusione di un percorso quindi c’è un riposo.
Così sembra anche il percorso della vita di Gesù. Anche lui è arrivato alla vigilia del sabato, in modo traumatico e violento, ma anche Lui sembra essere arrivato a riposo. Tutto sembra finito. Potremmo dire che finalmente riposa in pace. Quante volte lo abbiamo detto per tanti nostri familiari e amici che dopo una lunga malattia sono morti: «Riposa in pace». O magari dopo violenze inaudite che la cronaca ci riporta, diciamo «Riposino in pace». Tutto sembra finito.
Ma Dio non riposa in pace. Dio non sta in pace.
Perché? Perché non vuole la nostra morte. Non ci sta. Non l’ha voluta per suo Figlio, Gesù Cristo. E non volendola per Lui non l’ha voluta neppure per noi. Ecco la novità! Novità che non è frutto dell’uomo perché nessun umano da solo può darsi vita dopo la morte. Non è frutto neppure della fantasia di qualche persona in preda a delirio, come hanno pensato gli Undici [apostoli] quando le donne sono andate a raccontare loro, nel Cenacolo, di aver trovato una tomba vuota: «Gesù è risorto come veramente ci aveva raccontato!»
No, la novità che viene portata è opera di Dio. Di fatto il primo giorno dopo il sabato Maria di Magdala e le altre donne vanno al sepolcro e lo trovano vuoto. Forse anche loro avranno pensato che la sofferenza non era ancora finita. “Non era bastato averlo umiliato, crocifisso e ucciso: qualcuno si stava ancora accanendo su quel corpo. Ancora non gli stavano dando pace”.
Ma non sapevano che in quella tomba vuota si stava pian piano manifestando la novità che solo Dio poteva portare. Queste donne corrono ad annunziare che la tomba è vuota, che qualcuno aveva detto loro che era risuscitato. Allora anche Pietro e Giovanni incominciano a correre e trovano, proprio come hanno detto le donne, la tomba vuota. Ma Pietro, che entra per primo, vede qualcosa per terra, vede delle bende. E dopo di lui Giovanni vede qualcosa di più. Vede anche un sudario, a lato. E allora qualcosa si muove, si riaffaccia la speranza che quelle parole che Gesù aveva detto loro potessero essere vere: «Il terzo giorno risusciterò dalla morte».
Potremmo dire che c’è una progressione, perché le donne vedono la tomba vuota, Pietro vede delle bende, Giovanni vede le bende e un sudario piegato in disparte. C’è una progressione. Solo più tardi lo avrebbero incontrato vivente. Dopo la morte vive ancora.
Anche i discepoli che lo incontreranno la sera di quel primo giorno dopo il sabato, all’inizio impauriti, poi credettero in lui. Ma che cosa hanno creduto? Hanno creduto che il vivente non era stato sconfitto dalla morte. L’odio che era stato portato contro di lui non aveva potuto annientare la sua vita divina, il suo essere il Figlio di Dio. La relazione di amore che Dio da sempre aveva stabilito con il Figlio non poteva essere annientata.
Io credo che oggi, qui, forse qualcuno non è venuto solo per adempiere il precetto pasquale. Io credo che ciascuno di voi, uno per uno, siamo qui per un motivo.
Tutti abbiamo fatto l’esperienza, come i discepoli e come quelle donne, di un amore che non può essere sconfitto dalla morte, dalla violenza. Tutti noi che siamo qui potremmo dire di aver sperimentato che si può rinascere anche dopo una sconfitta, un’umiliazione, una parola fuori posto, un rinnegamento, un tradimento. “Io sono qui perché tutto questo non ha rappresentato l’ultima parola della mia vita. Il vivente che è nel mio cuore dal giorno del Battesimo mi ha fatto sempre rinascere, risorgere. E io sto sperimentando la sua stessa vita immortale”.
Ciascuno di noi oggi è qui perché come Pietro, come Giovanni, come le donne ha sperimentato che è possibile ancora amare. È possibile. Noi siamo qui per attingere alla parola di Dio, alla parola di vita, alla parola di speranza che ci è stata annunziata, nutrimento perché questa fiammella di amore che il Signore ha messo nel cuore di ciascuno di noi non si spenga mai. Quella fiammella che è stata accesa il giorno del nostro Battesimo quando i nostri genitori, padrini e madrine sono andati al cero pasquale e hanno attento lì la fiamma di quella candelina che gli era stata affidata dal sacerdote.
Ecco, noi siamo qui oggi per alimentare la nostra fede, la nostra fiducia, alimentare il nostro cuore con questo amore che non ci sta a vederci morire. Oggi noi siamo altri testimoni, come Pietro e Giovanni e come le donne. Iniziamo da questo momento una nuova corsa. Torniamo verso le nostre case, le nostre famiglie, i luoghi di lavoro, di impegno, di studio, di svago, annunziando che “Cristo è veramente risorto, Cristo continuamente vive nel mio cuore, Cristo continuamente porta una vita nuova nella mia vita”. Desideriamo essere testimoni, portare questa vita anche agli altri, perché anche altri possono vivere di questa stessa vita e di questo stesso amore.
